Il rovescio della tazza

Mi dicono di leggere, di scrivere, di non pensare.
Iniziare a dipingere, tornare a disegnare, studiare una nuova lingua.
Uscire, incontrare gente nuova, richiamare i vecchi amici.
Impegnare il tempo e le mani, per far passare il tempo della guarigione senza continuare a tornare a toccare lì dove fa male.
Mi dicono di calcolare lo spazio rimasto vuoto e progettare di riempirlo nel modo più razionale: concentrati sul lavoro, ritorna alla musica, inventa un nuovo progetto, torna all’univeristà.

Ma io mi guardo intorno nella mia casa ancora vuota e penso che ci sto bene. Penso a tutti gli oggetti che non ho più e che non mi mancano, perché in fondo non mi servivano. Penso che sto meglio nei luoghi poco affollati. Penso che ho tutto quello che mi serve e tutto quello che ho mi basta.

Allo stesso modo il vuoto che mi hai lasciato mi piace. Un po’ perché conserva ancora la tua forma e quindi è come averti ancora qui, in un certo modo puro e stupido da cui è esclusa ogni pretesa di possesso. Un po’ perché mi servirà a ricordarmi che ho già tutto quello che mi serve e che mi basta, quando sarà passata la nostalgia. Un po’ perché in uno spazio riempito a forza poi non c’è più posto per nient’altro. E io invece voglio tenere questo spazio che tu non hai voluto vuoto e pulito per chi vorrà provare ad abitarlo.

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