Il plurale di ciliegia

Mi ricordo che parlavo molto poco. Oggi non lo si direbbe, ma ero timidissima. Silenziosa, sempre con gli occhi spalancati. Alzavo la mano e aspettavo. “Lo sappiamo che lo sai, Valentina”, diceva la maestra, “facciamo rispondere qualcun altro”. E allora stavo zitta, guardavo fuori dalla finestra.
In cortile c’erano alberi alti, pensavo a quanto potessero essere vecchi. Sapevo che avremmo dovuto contare i cerchi nel tronco per conoscere la loro età, ma questo avrebbe significato doverli tagliare solo per soddisfare una stupida curiosità e non mi sembrava corretto. Guardavo gli alberi in cortile, guardavo il cancello verde. Vicino al cancello trovavamo spesso le siringhe che i drogati buttavano nel cortile della scuola, quindi dovevamo fare attenzione a camminare nell’erba con le scarpette di tela.
Quel giorno ero un po’ triste perché avevo un amico, Enzo Esposito, non mi dimenticherò mai il nome e le lentiggini, che non veniva a scuola da diversi giorni. Con Enzo parlavo volentieri fuori dalla mensa e all’intervallo, e anche se era più basso di me non mi sentivo a disagio. Qualche tempo dopo mi hanno raccontato che avevano mandato i carabinieri a casa sua a chiedere ai suoi genitori perché non lo stessero mandando più a scuola. Qualcuno lo aveva visto lavorare a una bancarella al mercato. Senza Enzo con cui parlare stavo zitta, seduta sulla mia sedia al banco. La maestra faceva domande ma io non alzavo più nemmeno la mano per rispondere. Sapeva che conoscevo la risposta, e preferiva far parlare Sabrina o Marco. Eravamo in 27 in classe. Sabrina non aveva le matite e allora un giorno tutti abbiamo dovuto portare a scuola dei soldi e le maestre hanno comprato le matite e i quaderni per Sabrina e per gli altri bambini che non avevano i loro.
Io stavo zitta e mi annoiavo, guardavo fuori dalla finestra sperando che arrivasse un drogato per vedere come fosse fatto, per vedere come faceva a lanciare la siringa dentro il cortile della scuola e se era proprio vero che le cose andavano come ci venivano raccontate. La maestra intanto ci stava distribuendo i fogli per la verifica sui plurali: “la scheda”, come la chiamava lei, era un elenco di parole al singolare con degli spazi tratteggiati a fianco su cui avremmo dovuto scrivere il plurale corretto. Ho iniziato a compilare la mia, senza fatica, era facile. L’ultima parola era ciliegia. Mi ricordo l’ondata di malinconia investirmi, la voglia di mangiare una ciliegia, la voglia di essere all’aperto, al sole. Ricordo le luci al neon, il pavimento sporco dell’aula, l’odore della polvere di gesso. Ricordo lo struggente desiderio di una carezza, di qualcuno che mi dicesse che era normale sentirsi poco importanti, che non significava nulla. Allora con la penna e un po’ di incertezza ho scritto “ciliege”. Sapevo che era sbagliato, ma facevo sempre tutto giusto: la maestra lo sapeva che ero brava. Non mi serviva in quel momento essere brava, mi serviva solo che si soffermasse due minuti a spiegarmi l’errore, anche a sgridarmi perché non ero stata brava come al solito, avrebbe anche potuto tirarmi le orecchie, qualunque cosa avrebbe compensato l’umiliazione di sbagliare apposta l’esercizio pur di avere un istante di assoluta totale attenzione della maestra per me. Avevo già pregustato il momento, mi stavo imponendo di non sorridere quando mi avrebbe fatto notare l’errore. Avrei avuto la faccina seria e composta, il labbro stretto, annuendo piano mentre mi avrebbe detto “Valentina, come hai potuto sbagliare il plurale di ciliegia?!?”. Pensavo a mantenermi impassibile e seria mentre consegnavo il compito e seguivo con il cuore velocissimo gli occhi della maestra che lo scorrevano. Poi la sua penna rossa ha tracciato un segno attorno alle mie “ciliege”, ha scritto “1 err, brava” in fondo al foglio, e mi ha rimandata a posto mentre gli altri bambini ancora finivano di compilare la loro scheda. Sono tornata in silenzio a guardare fuori dalla finestra, pensando che avrei voluto tagliare tutti gli alberi del cortile, per sapere quanto fossero vecchi, e che non importava niente ucciderli, tanto servivano solo a far cadere le foglie.
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2 giugno 2011, su Nemo
photo via unsplah

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