Di quella volta che ho scoperto come fare delle belle foto

Arriva un giorno in cui la vita ti mette davanti agli occhi tuoi limiti. E poi però arriva anche il giorno in cui la vita ti mette in mano gli strumenti per superare quei limiti.
Un esempio è il mio rapporto con la fotografia: mi piace fare foto, mi piace guardare foto, mi piace tutta la teoria e la poetica dell’immobilizzare un attimo per renderlo eterno e l’afferrare la luce, che è per definizione la cosa più inafferrabile al mondo. Ho provato nel corso degli anni a cimentarmi in questa nobile arte ma i risultati sono sempre stati scarsissimi.

Ricordo con tantissimo amore la mia prima macchina fotografica seria: pesantissima, tutta in metallo. A pellicola (ebbene sì, I’m THAT old). Al tempo sviluppare e stampare le foto era abbastanza dispendioso, quindi mio papà mi ha istruito su tutta la teoria di cui necessitassi per contenere le spese: iso, lunghezza focale, apertura di diaframma, tempi. Peccato che dal momento dello scatto a quello dell’effettiva verifica del risultato passasse così tanto tempo da rendere impossibile l’apprendimento per via empirica. Poi sono arrivate le macchine digitali. Ho sempre avuto macchine automatiche “punta e scatta”, quindi ho potuto rimuovere allegramente tutta la teoria. I risultati erano comunque pessimi, quindi ho avuto un ritorno di fiamma per l’analogico: il mio approccio è andato perfettamente in sintonia con la totale casualità della filosofia Lomo “io scatto, ma tanto la macchina inquadra quello che vuole e inoltre i colori vengono fuori a caso perché uso pellicole scadute”. Alla fine mi sono rassegnata a identificarmi nella più completa e depravata incarnazione dell’utente medio di instagram: usa il telefono, ritaglia, metti un filtro, e poi schiaffa tutto online ché tanto è quello che ti diverte. Prendo atto dei miei limiti e, senza farne un dramma, decido che non sono in grado di fare foto decenti a causa della mia cazzonaggine pigrizia nell’applicazione della teoria.

Poi un giorno un petalo di ciliegio perfettamente a fuoco e dalla perfetta saturazione dei colori è stato sospinto dal vento fino ad andarsi a posare in grembo a Sensei.
Sensei apre gli occhi, esce dallo stato meditativo e raccoglie il petalo: è il segnale che attendeva.

“Valentina, hai raggiunto la consapevolezza dei tuoi limiti. Con umiltà e perseveranza hai continuato ad amare la fotografia, pur riconoscendo le tue scarse abilità. Ora sei pronta per superare il tuoi limiti in un cammino che ti dimostrerà come con i giusti strumenti possa rinascere anche in te la speranza di scattare foto bellissime”.

Mentre le sue parole mi venivano trasmesse telepaticamente sulla mia scrivania si è materializzata una Canon G7 x.

“Vai e affronta la prova: questo strumento ti è stato affidato per immortalare il concerto di Elisa all’Alcatraz. Con te ci saranno Senpai Camilla e le giovani adepte Francesca e Arianna. Cattura la luce e poi diffondila nel mondo attraverso la connessione NFC del telefono e i tuoi soliti socialnetwork. La tua missione è iniziata”.

Allungo le mani sulla macchina fotografica. È piccola e leggera. Posso tenerla comodamente in borsa. Eppure è solida, tutta in metallo, al tatto mi ricorda il mio primo amore fotografico. Ha uno schermo grandissimo, un notevole zoom ottico e la possibilità di impostare qualunque funzione in modo da personalizzare l’uso in base alle proprie esigenze. Con emozione e un certo timore reverenziale la accendo e *STACCO* mi ritrovo qui:

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La situazione non è semplicissima: siamo abbastanza lontani dal palco, le luci sono davvero strane e soprattutto io sono bassa. Davvero, dal vivo sono molto più bassa di quanto sembri sull’internet (non a caso una delle mie bio preferite recita “non sono alta, sono lunga”). Davanti a me ho diversi cestisti, una delegazione della squadra di pallavolo della Lituania, un tizio con i trampoli, due giganti di ghiaccio e Hagrid. Più un tipo non altissimo ma senza capelli, e che riflette tutte le luci del palco e quelle dei cellulari perennemente alzati in un caleidoscopio di rifrazioni.
Posso solo fare un cosa. E per farla mi violento e infrango tutte le mie regole di buona condotta di animale da concerto, ma oh: ho una missione da compiere. E quindi alzo le mani sopra la testa e scatto.

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Ora la situazione si presenta così. Non mi faccio intimidire dalle distanze. Più la voce di Elisa si alza come un volo di gabbiani più io spingo sullo zoom. Scatto come una forsennata, punto tutto sulla quantità. La mia filosofia è questa: più foto faccio più ci sono possibilità che qualcuna esca bene. Non so se per merito di questo ragionamento, o se grazie alla fortuna del principiante, oppure se il Sensei mi stesse mandando le sue energie positive a supportarmi ma ecco quello che sono riuscita a tirare fuori.

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Qui, Elisa meravigliosa: il sogno vivente di ogni fan. Ha cantato per più di due ore, senza inutili fronzoli né interruzioni. Ha fatto tutte le sue canzoni più famose, anche quelle vecchissime, alternate a quelle più recenti e facendone scegliere qualcuna anche al pubblico. Sorridente, piena di energia. Divertita. Generosa. Spontanea. Guardarla stare sul palco è l’immagine perfetta della felicità, quello che ogni artista dovrebbe riuscire a provare e trasmettere. Una gioia immensa.

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In questa foto, mi hanno detto, c’è un po’ di rumore. Ho pensato “oh, è normale: eravamo a un concerto”. Poi ho capito che il concetto di “rumore” in fotografia è un’altra cosa. Con i miei tempi, adesso mi documento e imparo anche il gergo. Un passo per volta.

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Questa foto l’ho scattata in condizioni precarie, in un piccolissimo varco che si era creato fortuitamente nello sbarramento umano che avevo di fronte, come possono testimoniare le ombre non solo ai lati ma anche in alto.

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Questa forse è una delle mie preferite. Si intitola “Elisa come Nostra Signora del Pop”.

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Qui Elisa dirige un concerto per orchestra di mani e smartphone.

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E un po’ mi dispiace per la persona che stava facendo quella foto lì col cellulare perché mai nella vita gli sarà venuta bella, vicina e nitida come la mia.

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Qui Elisa smette di dirigere le mani e inizia a ballarci insieme.

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Questa foto l’ho inserita perché mi piacevano i coriandolini di carta che cadevano sul palco. Non li avevo nemmeno visti ad occhio nudo, mi sono accorta che c’erano solo dopo aver scattato la foto. Stupore magico.

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E di nuovo lei, bellissima, intensa. Più di una volta ho avuto dei brividi lunghissimi lungo le braccia. Quindi a un certo punto ho messo via la Canon e mi sono goduta la sua voce. Un vero incantesimo. E missione compiuta.
Adesso che sono un’iniziata esplorerò il potenziale davvero incredibile di questa piccola ma potente alleata. Non dovrò rinunciare alla mia pigrizia (basta davvero pochissimo per connettere la G7 x al telefono e passare le foto direttamente online) ma allo stesso tempo posso rispolverare tutte le mie antiche nozioni sull’arte dello scatto e metterle in pratica.
Sono sicura che imparerò e riuscirò a fare foto molto più belle. A volte è anche questione di apprezzare la possibilità di avere il controllo del risultato senza rinunciare alla praticità. A volte è soprattutto questione di avere gli strumenti giusti.

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