La vita in generale

Ho iniziato a leggere “La vita in generale” di Tito Faraci il giorno dopo che mi hanno stesa col motorino. Sì, di nuovo, ma giuro che questa volta non è stata colpa mia. Comunque, l’introduzione era solo per dimostrare che non tutte le sfighe vengono per nuocere: mi sono piazzata sul divano, stampelle e bottiglia d’acqua a portata di mano, e non sono riuscita a staccarmi dal libro prima di arrivare alla fine.
E visto che il karma probabilmente si è reso conto che doveva risarcirmi del ginocchio gonfio, mi ha dato anche la possibilità di molestare telefonicamente Tito: non riesco a chiamarla intervista, anche perché ho passato buona parte del tempo a entusiasmarmi per i dettagli che via via mi venivano in mente e ricoprire l’autore di complimenti, ma siamo riusciti a parlare più o meno di tutto quello che ho amato del libro, e vi riporto qui quello che ci siamo raccontati.
Questa parte giuro che è no-spoiler, e ho anche la benedizione di Tito per raccontarla qui anche se non avete ancora letto il libro, quindi leggete sereni.
A un certo punto della storia compare uno stagista. Compare per due pagine, giusto il tempo di farsi licenziare. Ovviamente si tratta di un personaggio totalmente marginale, solo funzionale a mettere in rilievo il carattere orrendo del personaggio orrendo che lo licenzia. Poor stagista: carne da macello anche nell’economia narrativa. Però qui Tito fa una cosa bellissima: in un paragrafo ci racconta che cosa succede dopo. Lo stagista molla il mondo schifoso in cui si era infilato, rifonda la sua vecchia band e molto probabilmente diventa una rock star. Il riscatto della comparsa. Prima o poi vorrei che qualcuno scrivesse la sua storia. Una botta di speranza che mica tutti avrebbero concesso. Tito mi ha detto che nella prima versione questa parte non c’era, ma io sono felicissima che sia stata aggiunta. Anche perché mette in chiaro in un esempio mini il meccanismo di sliding-doors su cui è fondato tutto il romanzo: ogni scelta, anche la più piccola, ha delle conseguenze che cambiano a cascata tutto quello che avviene dopo, che smette di diventare “possibile” e si trasforma in reale, pronto a stritolarti o elevarti.
Po ovviamente la trama è ricchissima di colpi di scena, e questa catena di scelte/conseguenze la si vede solo allontanandosi di parecchi metri da quadro, ma ho promesso no spoiler e quindi mi taccio.
Un altro momento di esaltazione l’ho avuto quando uno dei personaggi assiste a una lezione sulla narrativa (o sullo storytelling, come si dice oggi): mi diverto sempre molto quando si parte per la tangente del meta. E Tito ha riso molto al telefono, e mi ha confessato che le cose dette dal professore nel libro sono quelle che dice lui stesso a lezione. La struttura della narrazione, la metafora del cerchio, sono tutti argomenti che lui in prima persona spiega ai suoi studenti nello stesso identico modo. E quindi, se c’è un piccolo cammeo dell’autore in questo episodio, la domanda successiva è quasi scontata: quanto di te hai messo negli altri personaggi? La risposta mi ha sorpreso, ma ripensandoci più a mente fredda non poteva che essere l’unica possibile. “Mi sono disseminato in ognuno dei personaggi del libro”, mi ha detto. E in effetti ogni personaggio è come un prisma, che riflette il suo autore, almeno in una delle sue facce mentre le altre giocano con la luce in autonomia e gli danno spessore. E uno dei punti davvero forti di questa storia sono proprio i personaggi. Era da un bel po’ che non mi capitava di trovare sulla carta dei personaggi così pieni, così completi, autonomi. Che hanno molto più di una credibilità di convenzione, ma che sembrano esistere anche al di fuori della loro funzione narrativa. Tito mi ha confermato quello che immaginavo: prima di scrivere e di inserire un personaggio nella scena, gli ha creato intorno tutto: dalla sua storia al suo aspetto, al suo modo di parlare, muoversi, ragionare. E questo si sente perfettamente, perché anche quando viene detto poco di uno dei coprotagonisti (indipendentemente dal suo peso nella storia) quei piccoli dettagli riescono a cucigli addosso un identità fortissima e immediatamente riconoscibile. Bravo, bravo, bravo.
E poi c’è l’ambientazione. “Un romanzo si inventa, ma non si improvvisa: mi sono documentato, ho contattato l’associazione Scarp de Tennis per capire meglio quello di cui stavo scrivendo, mi sono informato in prima persona”: per scrivere dei barboni, di come vogliono essere chiamati e di come si chiamano tra loro, di come si regola questa società invisibile che si snoda parallela alla società delle persone “per bene”, e si organizza con codici di condotta propri e leggi solo sue. E del contatto reso quasi impossibile dall’invisibilità di questo mondo al nostro, come se nella stessa città convivessero due città sovrapposte, in cui è difficile trovare i punti di passaggio da una all’altra. E a proposito di città: Milano. Un libro che è un canto d’amore a questa città, alla sua storia recente e sofferta, alla sua geografia fastidiosa, meneghino in ogni riga, e riassunto perfettamente così da quello che mi ha detto Tito nella nostra intervista improbabile: “A Milano non ci sono orizzonti: è una città piena di ostacoli verticali che bloccano lo sguardo. E quindi ogni posto è sempre “dall’altra parte” di qualcosa, per raggiungere qualunque meta bisogna aggirare palazzi, ferrovie, quartieri. È tutto sempre oltre, dall’altra parte di un edificio, dall’altra parte della città, anche se poi nulla è veramente distante”.
Insomma, io questo libro l’ho amato per tantissimi motivi. Perché è un libro che parla con leggerezza di cose potenti. Perché è un libro sull’umanità, sulla capacità di conservarla, indipendentemente da quello che accade. Perché è un libro che parla di persone ricchissime, pur essendo senza un soldo, e persone che invece scelgono lo squallore e senza riuscire ad andare oltre il proprio personaggio, una proiezione malata di ego insoddisfatti e frustrazioni autoinflitte. E tutto questo senza rinunciare ai colpi di scena: per la prima volta Tito Faraci esce dai confini del genere, che padroneggia con audacia, per scrivere un romanzo che è un vero gioiellino. “Alla fine per scrivere serve avere una cassetta degli attrezzi ben fornita: il genere ti aiuta a maneggiarne alcuni, scrivere sceneggiature te ne regala altri, poi li hai tutti lì, a disposizione. E sul più bello ti accorgi che non serve utilizzarli tutti per forza”: ecco. Un po’ come la vita, in generale.
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