Uno sì, uno no. Il debutto degli AnyOther

Sono sopraffatta dalla noia, i giorni sono lenti, inchiodati, ogni mattina è una nuova splendente falsa partenza. Pulisci la cucina, fai il bucato, prepara da mangiare, preparati per gli esami.

Dimostrerò di non essere una fallita, alla fine ci rivedremo, sto solo aspettando. Sto aspettando che questo peso che ho addosso si sollevi, ora lo so: non mi interessa più stare male.

Il pugno è quasi disteso, la quiete è quasi iniziata: non mi dimenticherò quello che è stato. Ho paura di tutto, ho un nodo in gola, e quando esploderà le cose inizieranno a uscire e andare dove vogliono loro e quindi per ora sì, sono preoccupata ma ci sto lavorando, e quindi per ora sì. Sono felice di dire addio.

Educatamente, con un po’ di tristezza.
In silenzio. Senza fare rumore. Andando via.


Questa è la mia personale sintesi del disco di Any Other, con le parole stesse di Adele Nigro, pescate in disordine dalle varie canzioni e riadattate secondo la memoria di quelli che sono stati i miei vent’anni. La sua forza è di ricordarmi come ci si sente: sperduta davanti alle responsabilità, e sfacciata davanti alle sfide, e sicura di quello che credo anche se non è mai uscito ancora fuori a misurarsi con il vento e con il sole quindi speriamo che regga, speriamo che resista.
E forse sono stati così i vent’anni di molti: se lo avessero detto a me all’epoca mi sarei sentita incredibilmente sminuita, ma ora mi accorgo che è davvero un piccolo miracolo essere abbastanza lucidi e abbastanza spregiudicati da distillare quell’ansia e quella rabbia in 10 canzoni. E non capisco se sia qualcosa di veramente universale, tanto che ci si riconosce nonostante la distanza nel tempo, o se gli Any Other stiano parlando alla mia generazione per un’affinità di suoni e rimandi. Resta comunque un piccolo momento magico, crudo, di immersione in emozioni che credevo di essermi dimenticata.
La rivalsa, lo smarrimento, la tenacia, la paura. E la buona educazione.

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