Tre grazie e un coltello a serramanico
Oggi era già aprile da due giorni, e quando sono uscita dall’ufficio mi sono dimenticata di rifare l’abbonamento del tram. Mi sono accorta a metà strada, sull’autobus. Allora sono scesa, perché con la sfiga che ho addosso in questo periodo avrei di sicuro trovato i controllori e con la sfiga che ho in questo periodo non avrei avuto i soldi per pagare la multa, e me la sono fatta a piedi da Melozzo da Forlì a casa dei miei. (Ciao mamma, per quello ci ho messo così tanto ad arrivare a cena. E grazie, per la cena)
E camminando pensavo che mi sarebbe passata. Invece è cresciuta.
Cammino abbastanza veloce, passo milanese, anche quando non devo inseguire nulla.
Invece inseguivo un concetto che continuava a sgusciarmi avanti, e che in buona sostanza era “nessuno è qui per risolvere i tuoi problemi, svegliati e non aspettarti niente”. Ovviamente inseguivo anche il modo per dirlo meglio, ma, come si può leggere, mi è scappato.
E mentre camminavo continuavo a inciampare e sbattere conto pezzi delle mie vite passate, e ho capito perfettamente quale è stato il momento in cui mi si è rotto qualcosa per la prima volta. La prima crepa, e poi tutti gli sbriciolamenti successivi. Solo come conseguenze.
E come ero prima. Prima sapevo che se un ufo mi avesse rapita e poi depositata in un punto qualsiasi della Terra me la sarei cavata perché avevo addosso tutto quello che mi serviva per vivere bene: la mia testa e le mani da pianista, consapevolezza delle mie capacità e dei miei limiti.
E come ero libera a questo pensiero. “Non mi può toccare nulla, so cosa so fare, so di essere capace. Non mi serve altro.”
Non sono più in quel posto da troppo tempo, e non sono più quella persona da veramente troppo tempo. Adesso che non ho più niente da perdere non ho davvero più paura. Adesso devo solo recuperare quella consapevolezza, e poi davvero non avrò più bisogno di nulla e di nessuno per risolvere i miei problemi.
Sono da sola, la mia testa è sempre quella, le mani le possiamo ancora recuperare.
Le incertezze e la stanchezza mi hanno regalato una violenza di cui non mi serei mai creduta capace. E’ un buon bagaglio, leggero e utile come un coltello a serramanico.
Mi mancava solo un’arma, e ora ce l’ho. Le mani torneranno a essere quelle, e la testa è sempre la mia. Non ho più paura, nemmeno di usare questa benarrivata violenza.
Poi niente, ho cenato dai miei. Ho portato via un sacco di vestiti usati di mia sorella e della Sere (ciao Carlotta, ciao Lasere, grazie dei vestiti). Domani sarà presumibilmente un’altra giornata del cazzo, ma va bene lo stesso. Non ho paura.
(*** Qui sarebbe lecito aspettarsi una canzone, ma per questa volta soprassiedo. Tanto nessuno è in grado di indovinarla, quindi se la mettessi nessuno sarebbe in grado di capire il perché della scelta ***)
ultimamente quando ti leggo mi sembra davvero, a netto di ogni retorica, di leggere quello che scriverei io.
mi dispiace. ma grazie.