Due cose che mi ricordo
1.
Il foglio bianco era appeso con una puntina sulla porta laterale del teatro, quella dell’ingresso degli artisti. Mentre camminavamo lungo la strada non riuscivo a staccare gli occhi dal rettangolo bianco, come se avessi potuto leggere già da duecento metri di distanza i nomi che la segretaria aveva scritto a macchina rigorosamente non in ordine di voto. Sono corsa un pochino avanti ma all’ultimo ho lasciato che il maestro mi superasse e leggesse. Tenevo gli occhi bassi, guardandomi le stringhe delle Superga. Avevo paura di quello che avrebbe potuto esserci scritto e ancora più paura di quello che avrebbe potuto mancare dall’elenco: il mio nome.
“Ci sei”. Il maestro aveva chiesto all’organizzazione di farmi suonare davanti alla commissione l’ultimo giorno delle prove eliminatorie apposta: “tanto andrai sicuramente in finale, è inutile fare due viaggi”.
Avevo l’età in cui ero ancora padrona della formula alchemica che trasforma il panico in determinazione. Ho alzato lo sguardo verso gli occhi azzurri del maestro. “Andiamo a prendere un gelato al parco. E poi per questa sera…” mi ricordo ancora il suo sorriso rassicurante. “Non si preoccupi per me questa sera. Questa sera vinco”.
2.
Il pastone era viscido tra le dita. L’uovo mi colava sulle nocche mentre le lacrime mi colavano sul mento. Avvicinavo la mano con attenzione al suo muso nero e morbido, solo qualche peletto bianco intorno al naso. Mi guardava con gli occhi umidi che aveva sempre avuto, senza uggiolare, coraggioso. Mi leccava via il cibo dalla mano con delicatezza, mentre con l’altra gli accarezzavo la testa. Sentivo la cicatrice che aveva sempre avuto da quando lo avevamo trovato sotto il pelo corto che vicino alle orecchie diventava morbido come velluto. Piangevo e lo accarezzavo, e lui mi guardava lappando piano finché non gli è passato l’appetito e ha appoggiato la testa sulla brandina, steso sul fianco. La fiamma bianca sul petto, le zampe un tempo forti e muscolose che non lo sapevano più reggere, che non lo facevano più correre e saltare le panchine ai giardinetti, che non ticchettavano più con le loro unghione sui pavimenti. Il giorno dopo mio papà lo avrebbe preso in braccio e lo avrebbe accompagnato a non essere più. Ma per quella sera avevo ancora i suoi occhi neri e umidi e coraggiosi che sembravano volermi dire di non piangere più, e gli accarezzavo la testa grossa e buona cercando di intuire se sapeva oppure no.
Rispondi