Dodici ricordi e un segreto

Un sabato mattina terso e luminoso come solo Milano a ottobre sa tirarne fuori, i muffin al cioccolato con un buon caffè americano, la presentazione di un libro fresco di stampa: per me questa è la descrizione grafica di beatitudine.
Il romanzo è “Dodici ricordi e un segreto”, la seconda prova letteraria di Enrica Tesio che con un po’ di perplessità ha ammesso che in questo libro ci farà piangere. Finalmente! Voglio dire, se non conoscete ancora il blog di Enrica correte a leggerlo, perché è da qualche anno che ci dimostra di essere la più brava di tutte a fare ridere . Dopo un primo romanzo che ricalcava i temi e i toni del suo blog ci promette una svolta con un romanzo che tocca corde profonde: la nostalgia, la malattia, il senso della famiglia più o meno disfunzionale. E ribadisco, finalmente si piange perché ho sempre amato quella tenerezza infinita che la Tesio da brava piemontese nasconde sotto il suo modo caustico e pragmatico di affrontare l’amore, la vita e tutto quanto, e non vedo l’ora di scoprire dove ci porterà questa questa corrente sotterranea una volta rotti gli argini e lasciata fluire liberamente.

La storia è incentrata sul rapporto tra Attilio e sua nipote Aura, e si snoda come una specie di caccia al tesoro alla ricerca della verità. Il tema centrale infatti è quello della memoria: ogni ricordo porta con sé solo una versione della verità che rimane quindi intrappolata in una rappresentazione arbitraria. Cosa succede alla verità quando i ricordi si deteriorano? La verità cambia con loro? O semplicemente emergono altri punti di vista sulla storia rendendola più complessa e sfaccettata? E se la memoria ha la possibilità di creare la verità, o più versioni di questa, che influenza ha sulla creazione della propria identità? Perdere la memoria significa perdere una parte di sé, la parte di narrazione che abbiamo costruito su noi stessi negli anni. E con la regressione della memoria in Attilio torna a galla una connessione con il mondo immediato delle emozioni e dell’amore, che l’autrice rende con un uso interessante del dialetto come “luogo” del vissuto emotivo contrapposto a quello del racconto ripulito tramandato in italiano.

 

“Vorrei che le cose per noi rimanessero quelle di sempre,
che restassimo un accrocco improbabile di
 gente
che fatica a star troppo vicina
ma ancor di più
 a stare troppo lontana.
Una famiglia , insomma.”

Lo trovate da domani in libreria.

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