Dizionario dei Giorni Disperati (dalla F alla L)

Ho aperto il dizionario dei giorni disperati per trovare un sinonimo del mio essere vuota e leggera. Pensavo di essere come una lanterna di carta di riso, di quelle che volano nelle notti d’oriente portando in alto i desideri. Lo pensavo perche’ non riesco a contenere altro che quel poco di calore e luce che mi servono a sopravvivere per i prossimi metri. La mia incapacita’ di trattenere qualunque pensiero piu’ a lungo di qualche minuto pensavo fosse dovuta alla mia distrazione, alla mia stupidita’. Invece sono solo rotta. A pezzi. Come una scodella caduta a terra e andata in cocci. E puoi provare a riattaccare i lembi, continuera’ a perdere il latte dalle crepe. E puoi provare a confondere ancora frivolezza e fragilita’.

Camminavamo al sole e i cani ci facevano le feste. Io raccoglievo la ghiaia dall’argine del fiume. Tu non volevi che la portassi a casa, ma a me sembrava preziosa: ogni pietra simile alle altre ma con quella particolare venatura, quel particolare colore, quella piccolo unico affossamento sulla cima. E pensavo a quanta acqua ci fosse voluta per rendere ognuna di quelle pietre cosi’ perfettamente tonda e liscia, e le infilavo in tasca mentre senza pensarci le macinavamo con le suole di gomma delle nostre scarpe. I cani ci facevano le feste, c’era il sole, e tu mi mettevi le mani nelle tasche ridendo e ributtavi a terra i ciottoli che avevo scelto.

Di tutte le parole che mi hai detto ne scelgo solo una da tenere sempre con me. Quando hai risposto al telefono la prima volta che ti ho chiamato e hai detto “Hhh… ciao”. Ecco. Di tutte le parole che mi hai detto quell’ Hhh prima di parlare davvero e’ stata la piu’ grande dichiarazione del tuo amore. Ho visto le tue labbra aprirsi come come se volessi bere la mia voce dall’altro capo del filo. Ho immaginato l’aria che ti passava tra i denti e poi ti asciugava il palato e ogni senso che si risvegliava solo al mio nome che lampeggiava sullo schermo. Quando mi hai detto “Hhh” al telefono quella volta mi hai detto che volevi bermi, mangiarmi, respirarmi, mi hai detto che volevi che entrassi in te per rimanere dentro di te, parte di te, per sempre. Prima che il cervello riprendesse il controllo ed elaborasse un saluto mi avevi gia’ detto tutto. Le cose piu’ importanti me le hai dette quando non erano ancora state inventate le parole.

Ci sono parole che hanno il suono tanto bello quanto e’ crudele il loro significato. Il dizionario dei giorni disperati ne e’ pieno. Illudere inizia come un sipario che si apre sulla lingua che ribatte le elle mentre la u prende la forma di un bacio, e poi le labbra si stirano a lato come in un sorriso amaro per completare la parola. Hai messo in scena il tuo spettacolo di meraviglie, io ho creduto ad ogni mossa delle tue labbra, non volevo credere al finale, non potevo credere che stessi ridendo. Non volevo credere che stesse finendo.

Il tempo cura ogni cosa. E’ il medico migliore. Il tempo ha un bisturi affilato e non usa anestesia. Seziona, taglia, apre. Ti mostra il dolore in ogni sua angolazione, in tutta la sua profondita’, ne analizza colore e consistenza prima di scavare piu’ a fondo. Te lo spiega, te lo racconta, fin quando non lo impari a conoscere bene, come se fosse un oggetto separato da te con cui avere una quotidiana familiarita’, come il vuotatasche all’ingresso di casa dei tuoi o il pomello della porta dell’ufficio. Conti i giorni, i mesi, guardi le lancette girare. Ma in realta’ stai contemplando il tuo dolore, come si trasforma, come scorre lento, come e’ ciclico e senza fine. Il tempo ti guarisce quando diventa esso stesso il tuo dolore. E prima o poi chiederai per errore ad uno sconosciuto “che ore siamo?”

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