Il bar delle grandi speranze

phpThumb_generated_thumbnailjpg (1)Ho un debole per i romanzi di formazione, è cosa nota. “Il bar delle grandi speranze” è riuscito ad appagare tutte le mie aspettative, che erano comunque altissime: dopo mesi di pressioni da parte di chiunque perché leggessi Open ho scelto di assaggiare questo tanto decantato Moehringer partendo dal libro in cui racconta la propria storia, invece che da quello in cui racconta la storia del tennista. Tutto in questo libro è commovente. Il rapporto rovesciato con la madre, per cui è il figlio a sentirsi in dovere di proteggerla e prendersi cura di lei. Il padre assente che si manifesta solo come voce, un’entità senza corpo e senza verità portata in vita dalla radio. E poi il bar, che è il vero protagonista principale: un luogo in cui la vita accade per davvero, in cui si trovano gli uomini, quelli presenti in corpo e spirito, con una dimensione fisica violenta e ingombrante e con le loro storie assurde, disperate, divertenti, a seconda di quello che bevono. Il tema del nome, la ricerca della verità attraverso i libri, testimoni muti di varie storie in un ambiente dominato da voci e suoni. Passaggi minuscoli come: “Lei si limitava ad abbassare il volume della verità” rendono ancora più vivo il senso sinfonico di sopraffazione e di disparità tra la parola detta e la parola letta, tra il racconto chiassoso o sussurrato di una storia al bar e il racconto scritto, la parola dominata, senza suono, solo un tratto di inchiostro.
Questo libro mi ha fatto dire più di una volta “ecco, se sapessi scrivere vorrei saper scrivere così”.
Cinque pinte su cinque.

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