1985, un’estate di lacrime e sangue

In linea di massima ho avuto un’infanzia tranquilla. Non felice, no: una mente brillante come la mia non sarebbe mai potuta sbocciare dalla falcidiazione di ogni stimolo e ambizione di cui solo le infanzie felici sono capaci. Ma tranquilla sì. Ci sono stati pochi momenti drammatici, più che altro mi crogiolavo nella noia micidiale. Soprattutto d’estate, con quelle giornate che sembravano davvero non finire mai: hai voglia a leggere libri e inventare giochi. Anche con tutto il prato della casa in montagna a disposizione la noia è stata il condimento universale di ogni mia estate, tranne di quella terribile del 1985.

Nel 1985 infatti i miei genitori ebbero la crudelissima idea di mandarmi al mare con la colonia estiva. Si badi bene: non una colonia estiva qualunque, ma la colonia estiva del paesello di montagna da cui deriva il nostro pregiatissimo dna. Questa scelta perché ovviamente l’arrivo di mia sorella minuscola un anno prima e varie altre contingenze non avrebbero consentito a tutta la famiglia salpare felicemente verso il mare. Ero una privilegiata, la fortunatissima unica prescelta della famiglia che avrebbe goduto di onde e iodio per quell’anno. Della famiglia ristretta, si intende. Perché insieme a me ci sarebbe stata anche mia cugina, di quattro anni più grande.

Ora, non so se agli adulti sia mai stata chiara la differenza tra una bambina di cinque anni e una di nove: è abissale. Così come abissale è stata la lontananza da mia cugina per tutto il soggiorno nella ridente Milano Marittima. Credo di averla vista solo sul pullman all’andata e la prima volta che mi hanno portata in infermeria e per il drammatico caso del coniglio scomparso. Non solo lei era più grande, ma aveva tutto il suo giro di amichette. Essendo la colonia comunale di un paesino di 10.000 anime TUTTI i bambini avevano già i loro amici. Io a cinque anni non potevo immaginare lo squallore di dover frequentare per il resto della propria esistenza sempre e solo le stesse persone con cui sei stato in colonia nell’estate del 1985. Sapevo solo che tutti si conoscevano, tranne me, e che ero diventata immediatamente La Milanese, e che questo non mi aiutava a superare la mia timidezza (all’epoca molto sviluppata, poi sono guarita).
Se avete avuto la fortuna di non essere mai stati spediti in colonia, eccovi un riassunto di quello che succede. Se ci siete stati e non avete sofferto come dei cani, beh: probabilmente siete dei mostri ora come allora.

1. Le fettuccine con il numero
In colonia si indossa la divisa. Uguale per tutti, maschietti e femminucce: calzoncini blu e maglietta azzurra. La biancheria intima invece è ovviamente personale, e si identifica con delle fettucce di stoffa con su dei numerini amorevolmente cucite dalla propria mamma sull’elastico di ogni mutanda e dentro il colletto di ogni canottiera. Una volta alla settimana, di domenica, viene data la divisa pulita: così che dalla domenica al mercoledì la divisa pizzica per il detersivo/disinfettante e dal giovedì alla domenica pizzica per lo sporco.

2. La doccia collettiva
Tutte le sere tornando dal mare ci si sciacqua nei lavandini. Solo alla domenica si fa una doccia completa, il che significa: tutte le bambine in fila, dalle più grandi alle più piccole, biotte come rane nel lato destro dello spogliatoio. Doccia fredda, sapone razionato dalle “Signorine” che provvedono anche a strofinarti come se fossi il fondo bruciacchiato di una padella. Rientro nel lato sinistro dello spogliatoio e pesca della divisa pulita dai cestoni. Ovviamente, manco a dirlo, io non trovavo mai nulla che mi stesse.

3. La telefonata serale
In colonia ci sono due telefoni, fatti solo per ricevere. Di sera, dopo la cena, alcuni fortunatissimi vengono convocati perché i genitori hanno chiamato e loro possono così parlarci per cinque minuti. Io vivo ancora nella ferma certezza che ai genitori siano state date precise istruzioni di non telefonare più di una volta alla settimana. Per non farmi sentire che piangevo quelle rare volte che i miei hanno telefonato ho risolto piangendo tantissimo tutte le sere in cui non telefonavano.

4. La spiaggia
Di questa non ho grandi ricordi. Solo che era una striscia di sabbia bollente e chiara con dei tendoni piantati a terra per fare ombra. Io nuotavo come un pesce, ma il mare era recintato da una fila di boe e quindi non si poteva arrivare oltre 5 metri dalla battigia. E si toccava. Toccavo pure io che ero un soldo di cacio. Purtroppo non ho molti altri ricordi, solo le corse folli di tutti i bambini per accaparrarsi un posto all’ombra. Io arrivavo sempre tardi, o sempre in un posto “scusa, già occupato” da qualche amico/a che stava arrivando. Così mi mettevo al sole finché nel giro di mezz’ora non venivo trasportata in infermeria, grondando sangue dal naso come un vitello al macello. Capillari fragili, sempre stata così. Ovviamente né all’infermiera né alle “Signorine” è mai venuto in mente di controllare che potessi stare all’ombra di uno dei tendoni, e le mie giornate passavano in infermeria e in pineta a raccogliere pigne e pinoli.

5. Lo zampirone
Adoro il profumo dello zampirone. Quello proprio verde a spirale da accendere con il cerino e che resta a puzzare tutta la notte. Noi dormivamo in camerate da dieci, lo zampirone veniva acceso su uno degli armadietti metallici che ci facevano da comodino e messo al centro della camerata. Ovviamente non mi ero accorta (né nessuno mi aveva avvertito) che i comodini venivano presi a turno, e la sera in cui prima di andare a dormire non trovai più il mio mi venne una crisi di pianto peggiore del solito. Perché dentro il comodino c’era il mio coniglietto verde di pelouche. Temendo un’imminente crisi di epistassi qualcuno andò a cercare mia cugina, a cui riscii a spiegare il dramma tra bave e singhiozzi. Recuperato che fu il coniglio dal comodino la nottata passò senza altri intoppi. Fino al giorno dopo. Avevamo giustamente l’obbligo prima di scendere a colazione di rifare il letto alla perfezione, pigiama piegato sotto il cuscino, risvolti del lenzuolo e tutto. Siccome il mio comodino era al centro della stanza e non mi fidavo del fatto che sarebbe stato rimesso a posto senza essere per sbaglio magari scambiato con un altro, decisi di lasciare il coniglietto a dormire nel letto. Sotto il risvolto del lenzuolo, con la testina sul cuscino. La sera non lo ritrovai. Le regole sono regole, in colonia come in caserma.

Non so quanto sia durata questa esperienza devastante. Forse un mese? Sei settimane? Probabilmente anche due mesi. La scansione del tempo in docce settimanali mi spinge a credere che sia durata più di quello che ragionevolmente potrei supporre. A casa avevamo da poco anche un cane, Ugo. Un pomeriggio i miei genitori e mia sorella sono venuti a trovarmi. Mi hanno anche fatto vedere il cane, attraverso il cancello perché io non potevo uscire e lui non poteva entrare. Mi hanno detto che non dovevo piangere altrimenti diventava triste anche lui. Nel tempo di questa reclusione ho anche ricevuto una lettera, l’unica che mia mamma mi abbia mai scritto (ora se la cava più che bene con email e whatsapp), e anche questo indizio mi fa credere che per avere il tempo di ricevere una lettera via posta probabilmente il soggiorno è stato molto più lungo di quanto ragionevolmente ammesso. Sulla carta da lettera c’era disegnata una Hollie Hobbie, la mia mamma mi diceva che l’aveva scelta perché mi assomigliava. E che avrebbe scritto in stampatello e non in corsivo sperando che riuscissi a leggere facilmente tutte le parole. Ce l’ho ancora, è la prima lettera che abbia mai ricevuto e ancora oggi la mia preferita.

4 Comments on 1985, un’estate di lacrime e sangue

  1. Non torniamo più gli stessi
    dopo i tradimenti,
    la colonia estiva,
    l’apparecchio ai denti.

  2. Il primo anno mi avevano dato un numero a tre cifre, facciamo finta che fosse 205, l’anno dopo mia madre non voleva togliere dalle mie cose quei numeri e così cercò di farsi assegnare lo stesso numero che però era già occupato. Allora lei risolse la questione aggiungendo un 1 davanti. Così io ero l’unico di tutta la colonia ad avere un numero a quattro cifre, il 1205, e mi sentivo diverso dagli altri. E un po’ mi vergognavo.
    A ripensarci, questa storia ha almeno due morali: mia mamma era pigra, ma pratica e inventiva; io ero cresciuto molto poco da un anno con l’altro;

  3. me too, sostituendo a MilanoMarittima PinarellaDiCervia
    Saluti

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